Il canto della civetta

Durante la mia lunga convalescenza, in uno dei tanti giorni si dissipò quel velo sconosciuto ed indefinito che mi impediva di sentirmi vivo. Fino a qualche istante prima aver abbandonato il mio letto e le membra debolmente sollevate dalla biancheria, avevo vissuto in attesa del dolore e delle attenzioni delle persone che mi furono per un certo tempo vicine; di tutto il resto non ho nessun ricordo, nessuna altra emozione mi percorse. Ogni eterno istante vibrava soffocato da disturbi, supposizioni, sguardi e ogni altro genere di dolore che mi veniva causato dalla malattia, dai medicamenti e dalle diagnosi dei medici. Il mondo era tutto oltre la terrificante finestra che chiudeva la mia piccola stanza, adagiato sul fondo della mia mente agitata. Ogni tentativo di parlare, rigirarsi nel letto, era solo un modo di sfuggire alla follia; di uscire dal nascondiglio per non sprofondare annegato dai fantasmi. A cosa è servito quel dolore? Non sono più saggio o forte di prima né posso vantarmi di essere un uomo fortunato! Le conseguenze della mia malattia saranno con me per sempre, a mortificare il corpo e tormentare i desideri. Eppure, accade che dentro di se ci sia bel tempo. Il canto di una civetta tra la febbre ed il sangue, rese tutto inadatto alla tragedia. A mia insaputa mi condusse come un soffio di vento fresco, lontano dalla bestia feroce.

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